Ogni tanto ripenso ancora alle mie ferie estive e ripenso a quanta bellezza ci sia nel mondo, e noi abbiamo la possibilità di vedere tutto questo.Amalfi mi ha colpito profondamente: per i suoi colori, per la pace che mi ha trasmesso.
Io alloggiavo a Salerno e ho raggiunto facilmente Amalfi grazie ai pullman che partono dalla stazione centrale ed hanno capolinea proprio Amalfi. La nostra fortuna é che in Italia abbiamo tanti patrimoni Unesco e la Costiera Amalfitana ne fa parte. Dopo questa vacanza ho capito il perché: é meravigliosa in ogni angolo.
Appena si scende dal pullman, si può visitare l’Arsenale della Repubblica di Amalfi. Qui, mille anni fa, il rumore del mare si confondeva con quello dei martelli, delle seghe e dei comandi gridati dai maestri d’ascia. Era un concerto di ferro e legno, di voci e d’acqua: il cuore pulsante della potenza marinara di Amalfi. In queste navate, illuminate allora solo da torce e lanterne, prendevano forma le galee amalfitane, snelle, robuste, pronte a salpare verso l’Oriente. Le mani dei carpentieri modellavano il legno di quercia e di pino come se fosse carne viva, e i chiodi, battuti uno a uno, fissavano non solo le assi degli scafi, ma anche la gloria di una città che aveva osato sfidare il mare. Fuori, il porto brulicava di mercanti venuti da ogni dove — da Alessandria, da Costantinopoli, da Tunisi. Amalfi parlava la lingua del vento, del commercio, dell’avventura. E dentro l’arsenale, tra le travi e l’odore di pece, si costruivano non solo navi, ma destini. Poi il tempo cambiò. Le mareggiate interrarono il litorale, le galee smisero di nascere tra queste mura, e la gloria repubblicana si spense sotto il passo dei Normanni. L’arsenale restò, come un gigante addormentato, usato per mille scopi minori — deposito, magazzino, bottega — ma senza mai perdere del tutto la sua voce segreta. Oggi, quando entri in quell’antica navata e guardi in alto, le volte sembrano ancora respirare. E se ti fermi in silenzio, ti pare di sentire un colpo di martello, uno stridere di corde, il richiamo di un marinaio. O forse solo il mare che, invisibile ma vicino, continua a raccontare la sua storia attraverso le pietre. Lì, in quell’ombra sospesa, l’Arsenale di Amalfi non è solo un monumento: è un luogo che conserva un respiro antico, una memoria fatta di sale e di coraggio, dove ogni eco sembra ricordare che Amalfi, un tempo, fu regina del mare.


Porta della Marina è tutto ciò che resta delle antiche mura difensive che proteggevano Amalfi, quando era una potenza marinara e temeva più dei pirati saraceni che delle tempeste. Era un arco robusto, costruito in pietra vulcanica, scura e ruvida, con un’aria di guardia silenziosa. Di notte, le torce accese ai suoi lati proiettavano ombre tremolanti sui volti dei marinai che rientravano, stanchi e salati di mare, dopo viaggi lunghi mesi. Attraversandola, si passava dall’odore d’alghe e catrame del porto al profumo di pane caldo, limone e basilico delle botteghe interne. Era un passaggio, ma anche un rito. I capitani, raccontano le cronache, si fermavano un istante prima di entrare, posando la mano sulla pietra levigata, come a ringraziare gli dèi o la Vergine per il ritorno salvo. Sopra l’arco, si dice che in certi secoli fosse affisso lo stemma della Repubblica, con la croce bianca in campo azzurro, e che i custodi della città, armati di lance, controllassero chi entrava e chi usciva. Di giorno si sentivano i colpi secchi dei martelli dalle barche in costruzione, il richiamo dei pescatori; di notte, il mare arrivava fin quasi sotto la porta, sussurrando segreti che la pietra, da secoli, conserva.

Duomo di Amalfi.
Le sue arcate arabe, i motivi geometrici bizantini e la verticalità romanica si fondono in un’armonia che racconta secoli di incontri tra Oriente e Occidente. È un tempio che non appartiene a un solo tempo né a un solo stile, ma al mare stesso — a quella mescolanza di popoli e culture che Amalfi ha sempre rappresentato. Quando entri, l’aria si fa fresca, profumata d’incenso e di pietra antica. Le voci della piazza si spengono dietro di te, e restano solo il fruscio dei passi e il suono distante di una campana. Le colonne marmoree si alzano leggere, i capitelli decorati con tralci di vite e figure d’angeli, e la luce filtra dalle finestre come acqua dorata. Nell’abside brilla il mosaico del Cristo benedicente, un tripudio di oro e blu che sembra galleggiare nell’ombra come un riflesso di mare al tramonto. Ai piedi dell’altare, riposa il corpo di Sant’Andrea, il patrono di Amalfi, pescatore e apostolo, portato qui nel XIII secolo da Costantinopoli. La cripta che lo custodisce è un piccolo scrigno sotterraneo: volte affrescate, lampade votive, marmi antichi che riflettono la luce tremolante delle candele. Scendendo quei gradini, sembra di lasciare il mondo moderno per entrare nel cuore profondo della fede e della storia. Lì, in quel silenzio, puoi quasi sentire il respiro dei secoli — il canto dei monaci, le preghiere dei marinai che partivano affidando la vita al santo, e le lacrime di chi restava ad attendere sulla riva.







Museo della carta.
Entrando, ti accoglie un silenzio lieve, rotto solo dal gorgoglio dell’acqua che continua a scorrere sotto il pavimento. Le mura sono spesse, di pietra viva, e l’aria ha un profumo particolare: un misto di fibra di lino, legno antico e umidità. Non sei in un museo qualsiasi — sei dentro una cartiera del XIII secolo, una delle tante che un tempo punteggiavano questa valle, quando Amalfi non era solo potenza marinara, ma anche culla della carta in Italia. Sotto le volte basse, illuminate da una luce morbida, si trovano le antiche macchine: le pile a magli, i torchi, le vasche in cui si impastavano stracci di lino e cotone per creare la “pasta” della carta. Ogni strumento sembra ancora vivo. I magli di legno pendono come braccia gigantesche pronte a sollevarsi; il torchio, immobile, conserva la forza di mille pressioni; e l’acqua che scorre, la stessa che muoveva le ruote secoli fa, continua a sussurrare la sua musica. Una guida ti mostra come nasceva un foglio: la poltiglia che si raccoglieva con il telaio, il gesto lento di chi la immergeva e la sollevava con cura, lasciando colare l’acqua fino a ottenere una sottile trama bianca. Poi l’asciugatura, la pressatura, la levigatura con pietre lisce. Ogni foglio era una piccola opera d’arte, e quando lo si teneva in mano, si poteva intravedere la filigrana amalfitana, segno di qualità e orgoglio. Camminando tra quegli antichi macchinari, ti sembra di sentire il battito ritmico dei magli e il vociare degli artigiani che lavoravano al ritmo dell’acqua.
Fuori, il mondo cambiava — repubbliche che cadevano, imperi che nascevano — ma qui, nella valle, la carta continuava a nascere come da un rito segreto, bianca e silenziosa, pronta ad accogliere lettere, mappe, preghiere, sogni. Oggi, il Museo della Carta è un ponte tra i secoli.
Non è solo un luogo da visitare, ma da ascoltare. Ogni angolo parla di mani sapienti e pazienza artigiana, di un tempo in cui le cose si facevano lente, e la bellezza aveva il ritmo dell’acqua e del respiro.



Ricordi di Amalfi: dalla carta alla cartolina.
Non è solo una mostra, è un viaggio nel tempo, un filo che collega le mani dei maestri cartai medievali a quelle dei turisti e dei curiosi che, secoli dopo, scrivono le loro emozioni su una piccola cartolina. All’inizio, ti trovi davanti agli antichi fogli di carta amalfitana, sottile e preziosa come seta. Puoi quasi sentire il rumore dell’acqua che scorreva nella valle dei Mulini, il battito ritmico dei magli che trasformavano stracci e lino in pagine bianche. Ogni foglio porta con sé la memoria di mani pazienti, di gesti ripetuti mille volte, di artigiani che sapevano fare dell’acqua e della fibra un oggetto eterno. Poi, man mano che cammini, la storia prende forma nelle prime lettere e manoscritti, in cui si annotavano conti, mappe, contratti commerciali. Amalfi non era solo porto e commercio, era comunicazione, rete, relazione, e la carta ne era il veicolo invisibile ma solido. E infine, il passaggio alla modernità: le cartoline colorate, con immagini del Duomo, della Costiera e del mare scintillante, che viaggiavano per ferrovia, nave e a volte a dorso d’asino fino a giungere nelle mani di chi era lontano, ma con il cuore ancora a Amalfi. Leggerle è come ascoltare il respiro di chi scriveva: turisti romantici, emigranti nostalgici, amici e amanti che volevano condividere un frammento di quella luce mediterranea. Mentre cammini tra le teche e le immagini, ti sembra quasi di sentire: il rumore dei magli nella cartiera, il fruscio delle prime lettere manoscritte, e infine il ticchettio dei timbri postali sulle cartoline, che segnano il passaggio della memoria dal cuore di Amalfi al mondo intero. Alla fine del percorso, non guardi solo oggetti antichi: guardi la storia di Amalfi raccontata attraverso i suoi ricordi, e capisci che ogni foglio, ogni carta, ogni cartolina è un piccolo miracolo di connessione umana, un ponte che unisce chi scrive e chi legge, ieri come oggi.






Le maioliche amalfitane di Lieto.
Le maioliche di Lieto non sono solo ceramiche, ma storie dipinte su smalto. Ogni piastrella racconta un pezzo di Mediterraneo: il blu profondo del mare che lambisce la costa, il giallo dei limoni che pendono dai rami, il verde brillante degli agrumi e delle viti. Sono colori vivi, che sembrano assorbire il sole e restituirlo in riflessi dorati. Camminando tra le opere di Lieto, percepisci la pazienza e la maestria necessarie per creare una maiolica. Ogni disegno è tracciato a mano libera, poi colorato con smalti naturali e cotto nel forno fino a diventare lucente e immortale. Non ci sono due piastrelle uguali: ognuna ha una piccola imperfezione, un gesto umano che le dà vita. Le decorazioni spaziano dai motivi geometrici tipici dell’arte araba e bizantina, ai disegni floreali e paesaggistici, fino a scene che raccontano la vita quotidiana amalfitana: barche al porto, contadini nei limoneti, santi e simboli religiosi che guardano silenziosi dal muro di una chiesa o di una casa. Osservandole, sembra quasi di sentire il suono del mare e il vento tra gli alberi, come se la ceramica non fosse solo colore, ma memoria tangibile della Costiera. Le maioliche di Lieto non servono solo a decorare: raccontano la luce di Amalfi, la sua storia, la sua vita quotidiana, trasformando ogni parete in un piccolo racconto.

Lungomare dei Cavalieri di Amalfi.
Il lungomare è un balcone sul Mediterraneo, con la città alle spalle e l’infinito blu davanti a te. I ciottoli levigati sotto i piedi raccontano i passi di generazioni: mercanti, marinai, cavalieri e pellegrini che, nel corso dei secoli, hanno camminato qui tra l’odore del mare e il fruscio delle vele. Sulla destra, le barche dei pescatori oscillano dolcemente, i loro colori vivaci si specchiano nell’acqua come pennellate sulla tela. I gabbiani volteggiano sopra le onde, accompagnando il rumore ritmico del mare che si infrange contro la banchina. Qui, ogni dettaglio sembra respirare storia e memoria, perché il lungomare non è solo una passeggiata, ma un luogo di passaggio, di arrivi e partenze, di incontri e addii.





Per pranzo mi sono fermata da Cica, la pescheria in via Pietro Capuano. Io ho assaggiato due cuoppi diversi e li ho trovati davvero buoni. Si può scegliere se mangiarli lì, nei pochi posti a sedere, oppure portarsi il cuoppo in giro e mangiare camminando.

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